mercoledì 12 settembre 2012

infinite jest, still

Un libro tolto dallo scaffale lascia un buco gigantesco, non posso stare troppi giorni a leggerlo, quel buco è insostenibile e inevitabile, dai miei occhi, dato che la libreria in questione è proprio di fronte al tavolo su cui scrivo.
Il tavolo è quadrato, sì, potrei mettermi in uno qualsiasi degli altri tre lati. In linea di principio, forse, così, ragionando in astratto, sarebbe possibile, sembra una proposta intelligente.
Ma spostarmi è impossibile, girata in un altro senso non so scrivere, non in questa stanza.
Il libro ha la costa rovinata, l'ho tenuto in mano un milione di ore e ho girato le pagine mentre mi trovavo in posizioni al limite del contorsionismo, alcune, per questo, sono leggermente strappate. Su certe pagine ho scritto volutamente, con la matita, su certe altre la matita ha scritto contro la mia volontà, approfittando di un viaggio mentale lungo e a fari spenti.
C'è una confidenza fisica tra noi, ormai.
Delusione o dolore?
Questa è una domanda giusta.
Un suicidio si porta appresso una valanga infinita di cazzate, di parole che la gente si sente obbligata a pronunciare, di perché inutili e superflui.
Se esiste una domanda possibile credo sia solo quella scritta in questo libro - e non in relazione al suicidio. La sola domanda che possiamo presumere di conoscere.
Un momento cruciale è quello in cui ci si chiede se è peggio essere una grossa delusione o un profondo dolore - al di là del valore o della plausibilità della questione, dalla risposta dipendono molte scelte.
Tutte le altre sono parole nostre e sono parole inutili, ci servono per stare meglio o per stare peggio, dipende dall'attitudine personale, ma restano solo nostre e inutili.
Ed ecco il mio consiglio spassionato, l'immancabile morale della favola, l'epilogo dell'apologo: tacete, quando - se - una persona si suiciderà nel vostro raggio di sentimento, tacete, state zitti, non dite niente sul suo gesto o su di lei.
Non dite niente, non direte niente, mi auguro.

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